Artesinequanon di Sabrina Baldanza
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L’Avanguardia russa e il veleno dell’Occidente

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Un’arte fatta di uomini, di grandi personalità come Kandinskij e Malevič, ma soprattutto di donne e di operai. Perché di loro mi piacerebbe raccontarvi e della entusiasmante mostra a Vicenza presso Palazzo Leoni Montanari dal titolo AVANGUARDIA RUSSA. Esperienze di un mondo nuovo.

 

Donne, amazzoni,  scudiere scite come la Gončarova, Ekster e Rozanova . Donne guerriere che affiancano i loro compagni o colleghi nella ricerca tenace di un mondo diverso, dove la bellezza è l’unica salvezza. Dove l’Occidente va studiato, compreso tra Cubismo e Futurismo ma dove spiritualità e risveglio della memoria non passano da lì. Depositarie della tradizione popolare russa dei lubok, dei giocattoli, delle insegne dei negozi, dei canti e delle poesie di Esenin e Blok, raccontano un mondo che viene da lontano: dalle icone.

 

Le icone, vere regine della mostra, immagini, “distanze minime alla massima velocità” trasportano in una altra realtà. Le amazzoni dell’avanguardia russa del ‘900 scrivono, dipingono affermando che è possibile  creare una società di   buona volontà consapevole che l’arte possa veicolare idee insegnate in cattedra da loro stesse e dai colleghi Kandinskij, Malevič, Chagall, Tatlin, Rodčenko sottoforma anche di arte applicata. L’azzeramento dell’oggetto porta al design, alla costruzione in fabbrica di manufatti splendidi, sempre più astratti e sempre più sganciati da ideologie o falsificazioni politicizzate. Malevič sa ricamare e cucire, Rodčenko progettare la prima tuta da lavoro come il nostro futurista Thayat qualche anno prima (1919).

 

Il fare, il mestiere di fare arte passa dal contesto storico-culturale della città di Ivanovo, piattaforma sperimentale per innovazioni artistiche e architettoniche del cosiddetto agit-stoffe e dell’era del Costruttivismo. La “Manchester russa” con macchinari tessili all’avanguardia, una classe operaia composta, combattiva  con semplice e rigorosa dignità, vanno a lezione per  progettare un sogno, sperimentare un mondo nuovo, dove la condivisione è condizione sufficiente e necessaria per sopravvivere e far crescere dentro di sé un soffio vitale.

 

Scrive Rodčenko negli anni Venti.

“IL FUTURO NON COSTRUISCE CONVENTI A PRETI PROFETI E INVASATI DELL’ARTE

ABBASSO L’ARTE COME RATTOPPO COLORATO SULL’ESISTENZA INSULSA DEL BENESTANTE

ABBASSO L’ARTE COME PIETRA PREZIOSA TRA LA SPORCIZIA E LO SQUALLORE DEL POVERO

ABBASSO L’ARTE COME FUGA DA UNA VITA INDEGNA DI ESSERE VISSUTA

UNA VITA COSCIENTE E ORGANIZZATA CHE SA VEDERE E COSTRUIRE QUESTA E’ L’ARTE MODERNA”.

 

Come l’iconostasi, parete decorata di icone che separa il presbiterio dallo spazio riservato ai fedeli, era nel mondo dell’ortodossia russa, separazione ma anche passaggio simbolico obbligato per accedere al mistero teologico, così il cerchio di Rodčenko tra i 4 arcangeli, Michele e Gabriele e l’architettura pittorica di Popova e il Suprematismo di Klijun, ti indica in silenzio la strada forse possibile anche per noi e per il nostro nuovo secolo, dove lo spirito dell’arte possa essere a guida di una società consapevole e illuminata. 

E’ un momento  particolarmente emozionante dell’esposizione: una “preghiera laica” di quelle che piacevano a Kandinskij nelle sue composizioni.

 

“AVANGUARDIA RUSSA”  nasce da una bella e sana collaborazione. Intesa San Paolo apre le porte ancora di più al suo tesoro e dialoga con l’Università Ca’ Foscari . La finalità della mostra si evince da un corposo e ricco repertorio di opere e anche di innesti tra letteratura, fotografia, musica e poesia. Il nostro ‘900 unico e irripetibile è in mostra degnamente rappresentato.

 

Un unico neo. Forse avrebbe bisogno di più silenzio visivo. L’ipod touch, degno successore dell’audioguida con spugnetta alle orecchie  del passato, spesso è eccessivo e non lascia il tempo per pensare e per ammirare le splendide icone dell’antichità e  anche di una avanguardia scalpitante e volitiva dei primi anni del novecento.

Troppo rumore di informazioni,  così seduttive e utili per approfondire e ricercare, ma solo dopo essere arrivati all’ultimo piano, quando scossa la polvere dai piedi, come scrive la Gončarova , si lascia l’Occidente per volgere alla fonte originaria di tutte le arti, verso l’Oriente.

 

Ma questo è il nostro tempo e la nostra maledizione occidentale.

 

 

AVANGUARDIA RUSSA.

 ESPERIENZE DI

 UN MONDO NUOVO

Vicenza, Palazzo Leoni Montanari

11.11.2011–26.02.2012



QUEL SORRISETTO DALLA FRANCIA

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Avete tempo, fino all’8 gennaio 2012, ma andate alla mostra Severini. Vita d’artista dal futurismo al ritorno all’ordine al Mart di Rovereto.

Esposizione fin dalle prime sale completa, rigorosa, ma soprattutto luminosa e vitale come è stata la vita stessa di Severini.

 Ruvido, superbo, indipendente come la gente della sua nativa Cortona ma grande e intelligente mediatore a Parigi sua città di adozione tra Futurismo e Cubismo, tra l’Italia e la Francia.

 

E’ il 1906. Parigi, stazione di Saint-Lazare. Solo, misero e disarmato, Severini parla male il francese ma ha tanta voglia di vivere. “Andavo per le vie del mondo con una spensieratezza gioconda, senza essere né troppo pieno di speranze, né pieno di dubbi sentivo che dovevo andare”, scrive entusiasta nel suo diario.

 

In brevissimo tempo trascina i suoi amici futuristi nelle boîtes de nuit, café chantant dai nomi famosi le Moulin de la Galette, le Rat mort, le Monico dove ritmo danza musica e luci sono sbalorditivi e in sintonia con un Severini che tra le tante cose che sperimenterà nella sua lunga vita, quali volare, entrare in una gabbia di leoni al circo, ha la fortuna di essere un eccellente ballerino.

 

In pochi mesi fiuta e frequenta le cattive ma necessarie maniere di Montmartre e Montparnasse. Conosce Modigliani e tramite Braque il vate Apollinaire e Picasso con tutta la sua banda.

 

1911. Severini organizza alla Galleria Bernheim Jeune una prima e attesa esposizione futurista e con la sua tela “Souvenirs de voyage” traduce in pittura il pensiero di Bergson e dell’amico Boccioni: Il presente pervaso dai ricordi che diventa stato d’animo.

Marinetti scriverà e griderà a tutto il mondo il successo di questo straordinario evento. L’arte italiana è la nuova e unica avanguardia.

Severini racconta che in realtà non andò così. Le critiche, i sorrisetti di scherno ci furono da parte dei difesi francesi, ma non per i contenuti, anzi, ma per l’aggressività e i toni con cui i futuristi si proponevano alla mentale, intellettuale ma forse per questo troppo congelata arte cubista.

 

Apollinaire, infatti, lungimirante, comprende che il Futurismo ha una marcia in più, una energia prorompente, unica che non può che far del bene a quel che sarà il dopo cubismo. Un’arte aggrappata alla vita, dove l’opera non è più una rappresentazione ma un’azione, un momento della vitalità assoluta della materia. Un frammento del dinamismo dell’universo.

 

Apollinaire propone, con mediatore l’attento e ormai caro alla Francia Gino Severini, di chiamare FUTURISMO l’intera avanguardia e lasciare poi che ogni artista scelga la propria corrente artistica.  Sarebbe stato il matrimonio del secolo tra la Francia e l’Italia.

Marinetti risponde di no. Il Futurismo è italiano, rigorosamente made in Italy.

Che grave errore! Severini è affranto e noi con lui.

Non si è voluta leggere e capire la grande portata che questa proposta recava in sé. Un’occasione di riporre le armi e fare la pace tra gli spocchiosi francesi e i provinciali italiani. L’ostracismo dalla Francia e una politica italiana ottusa di regime  fecero il resto. Non è un caso che i nostri musei non abbiano comprato o acquisito tele di Renoir, Monet ecc. Racconta Severini che sarebbe bastata anche la sua sola mediazione perchè in poche settimane le nostre istituzioni conquistassero le più belle sculture di Degas o qualsiasi altra opera strepitosa della modernità.

 

Una storia, ahimè, che si ripete, oggi, ma con dei sorrisetti e degli scherni dal mondo intero per l’Italia ben più pesanti e umilianti.



AISHA MUSA DELLA CONTEMPORANEITA' 
Passato e presente legati dagli stessi simboli.

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Si comincia da quest’estate. Da un’immagine apparsa su Time del 9 agosto.

 

Si comincia da Aisha ragazza afghana. Occhi veloci, capelli raccolti dal vento dei pensieri e da un velo, custode di atrocità: Aisha non ha più il naso e le orecchie. Per uniformare, per correggere, per soffocare la libertà, i talebani le hanno tagliato le sporgenze, le eccedenze, l’olfatto e l’udito. Niente più odori, profumi, respiri e quindi ricordi. Niente più ascolti, voci, musiche. Un silenzio profondo e assordante nella sua solitudine di essere dignitosamente umana.

 

Dopo pochi giorni, ho la fortuna di visitare a Roma la Centrale Montemartini, gioiello poco noto anche agli stessi romani. Antica centrale termoelettrica, straordinario esempio di archeologia industriale riconvertito in sede museale e ospitante una ricca collezione di arte romana.

 

La maggior parte dei busti e delle statue sono state oltraggiate nel naso. Non tutti sanno che ci sono state epoche in cui si spaccavano i nasi delle statue intenzionalmente e che moltissime sculture del periodo greco/romano sono state deturpate da questa furia iconoclasta, ripresa ai nostri giorni dai talebani, distruttori anch’essi di immagini.

 

Ed è lì che ritrovo Aisha. In epoca ellenistica si chiamava Polimnia. Una delle 9 Muse, nate dall’unione di Zeus, l’autorità, e Mnemosyne, la memoria. Musa pensosa, statua di marmo, anche lei senza naso. Avvolta nei suoi veli, protettrice degli inni sacri ed eroici.

 

Ruolo di intellettuale nell’antichità, capace di educare, di tramandare e di essere voce dell’autorità e nello stesso tempo voce del piacere. Perchè Polimnia sapeva essere così gradevole da distogliere le persone dai loro dolori e dalle loro preoccupazioni personali, per integrarle nella sfera collettiva della cultura.

 

Così vedo, oggi, con gli occhi miei contemporanei, anche Aisha.

 

I giornali giustamente parlano, si interrogano sugli orrori e gli errori delle guerre, sul destino di ricostruzione facciale di Aisha a spese in parte del Time, del suo viaggio protetto negli Stati Uniti; ma ciò che sento forte in lei è il suo destino che emerge come in Polimnia, trovata sepolta nei sotterranei dopo lunghi scavi archeologici.

 

Con quella immagine, senza naso, bella e struggente come una Musa, Aisha testimonia e racconta di un’altra cultura che esiste, che sta guardando te, il mondo intero o forse oltre.

 

In quel viso devastato, la giovane Musa tramanda la sua storia, di suoni e di profumi lacerati, di ferite che gli occhi e la voce non hanno dimenticato. Dalla polvere di una mentalità arrogante e violenta emerge Aisha, Musa della contemporaneità. Poesia che diventa sentenza, denuncia, messaggio politico. Memoria come capacità di ricordare e possibilità di essere ricordati.


Anish Kapoor
LA MATERIA  IN TENSIONE


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Volete provare degli spaesamenti percettivi? Dedicate del tempo alla materia. Cera e metallo. 

L’artista indiano contemporaneo Anish Kapoor a Milano espone in due sedi la Fabbrica del  Vapore e La Rotonda di via Besana.


Mi soffermo sulla Rotonda. 

Arrivarci con il tram n. 9  (fermata piazza Cinque giornate), anche d’estate, è uno spasso. Eleganti palazzi con hortus conclusus agli ultimi piani e un sorprendente e consolatorio verde lungo i viali conducono al ritmo lento e ovattato del tram alla meta.

All’improvviso,  una possente costruzione circolare in mattoni rossi  con vetri e sbarre protegge la ex-chiesa a croce greca di  S. Michele e lì, dentro quel tempio,  incontri senza rendertene conto la tua immagine che dialoga con le opere di questo artista di Bombay. Oggetti o meglio non objects, la cui esistenza è legata essenzialmente al contesto in cui prendono vita. Riflettenti, di grandi dimensioni, ti catturano. Un senso di malessere, di perdita dell’ equilibrio, ma da subito il gioco è fatto.

L’opera ti possiede e muta anch’essa la sua essenza.

Metallo lucido concavo o convesso, integro o frantumato come pezzettini di uno specchio infranto.


Mai come in questa mostra ti dà più fastidio la scritta perentoria NON FOTOGRAFARE e NON TOCCARE. Hai  invece voglia di catturare quella malia di strutture, di specchi, di sculture curve perché fin da subito ne fai parte e dopo un po’ ci stai anche bene. Vorresti  toccare la cera fusa a strati intrecciati, quantità a tonnellate, spalmate intorno alla sacralità di un cerchio il cui diametro è mosso da un demiurgo metallico. Non si può ma alcune macchie sul bordo delle didascalie testimoniano che qualcuno ha infranto la regola.

Sei nel tuo spazio vitale ma sai anche che stai camminando in un’altra dimensione. Non è solo un gioco percettivo ma è prova che la condivisione tra materia affrancata dal suo artista  e lo spettatore esiste.  A Kapoor interessa non l’immersione nell’opera d’arte, ma è più interessato allo spazio di fronte l’oggetto.  My Red Homeland sa aspettare in silenzio la tua persona. Ma quando arrivi e attraversi la percezione di questo buco nero, anzi rosso, sei in balia di una nuova realtà spaesante, a tratti paurosa e inquietante, a tratti divertente, ma sempre sicura e protettiva perché fatta di  madre/materia. Ma una materia libera anche di non essere soltanto materia. Espressione del vuoto cioè del momento in cui uno spazio è pieno di ciò che non c’è: la parte immateriale del materiale.

Anish Kappor Anish Kapoor, artista britannico nato in India, è uno dei più grandi creatori contemporanei.

Scultore e architetto ripugna le categorizzazioni. Infaticabile pioniere di spazi sconosciuti,  ha creato Sky Mirror (2001), un gigantesco specchio concavo riflettente il cielo e la vita della piazza sulla spianata del Rockefeller Center di New York, e Cloud Gate (Chicago, 2003), immensa opera in acciaio, che assorbe l’altezza degli edifici attraverso la sua orizzontalità, sfuggendo all’urbanità di una città totalmente verticale.

La fabbrica del vapore: 
31 maggio – 8 gennaio 2012

Rotonda di via Besana: 
31 maggio – 9 ottobre 2011

 Lunedì 14.30 – 19.30

Martedì e Mercoledì 9.30-19.30

da Giovedì  a Domenica  9.30-22.30



L’ARTE A TESTA IN GIU’

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Da non perdere la bella e intensa mostra dedicata a Marc Chagall “Il Mondo sottosopra” fino al 10 luglio a Palazzo Forti.

 

Oli, gouache, incisioni fin da subito rapiscono per la squillante visionarietà e fanno venire in mente più di un secolo di storia dell’avanguardia, dal rigore plastico della forma di Picasso e Braque, al geniale mondo in punta di piedi dei Balletti Russi dell’impresario Diaghilev, alle scenografie eleganti e suadenti di Bakst uno dei maestri di Chagall, al bisogno di spiritualità del Blaue Reiter, al colore vorticistico di Delaunay e Léger o alle  nobili poesie di Blok o del malandrino Esenin.

 

I colori parlanti di Chagall trascinano in altri pensieri. collegamenti, riflessioni, influenze. Non mollano anche quando la legge di gravità e un mondo a testa in giù  mostrano un altro punto di vista,  una realtà impalpabile, emozionale, altrettanto vera e àncora di salvezza nei momenti più bui e difficili dell’esistenza.

 

La sua autobiografia Ma vie tradotta in francese dalla moglie Bella testimonia anche la difficoltà per un artista di essere negli anni Dieci e Venti autentico, in grado nonostante la propria timidezza di affermare se stesso, la propria originalità di contro a  un mondo politico e culturale manipolatorio e corrotto.

 

Nominato responsabile culturale della natia Vitebsk e attivo durante la rivoluzione di Ottobre, Chagall dovrà faticare per imporre una sua progettualità e per non cedere per stanchezza e sfinimento ad una sonnolenta ed ignorante classe dirigente.

Quanta fatica nelle sue parole, nel cercare di non essere un cortigiano,  di non apprendere l’arte di strisciare. Lui mite, timido ma con un’idea ben precisa tra il 1914 e il  1922… : “in Russia uniamoci per eliminare questo vecchiume facciamo un miracolo….. Rovesciamo il mondo!”.

 

Chissà se Chagall ha letto Saggio sull’arte di strisciare, una facezia filosofica scritta due secoli prima dal barone d’Holbach, esponente del materialismo illuminista francese, amico di Diderot e suo collaboratore nell’esaltante avventura dell’Enciclopedia. …

 

…“Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale, ma del padrone o del ministro…. La nobile arte del cortigiano, l’oggetto essenziale della sua cura, consiste nel tenersi informato sulle passioni e sui vizi del padrone… Gli piacciono le donne? Bisogna procurargliele. E’ devoto? Bisogna diventarlo o fare l’ipocrita. E di temperamento ombroso? Bisogna instillargli sospetti riguardo a tutti coloro che lo circondano”.

 

Chagall non avrebbe mai potuto essere un cortigiano per struttura, per educazione, per temperamento. Chagall racconta che il suo volto è troppo dolce, gli manca una voce rimbombante…”Né la Russia imperiale né quella dei Soviet hanno bisogno di me. Io sono incomprensibile”.

Ma … anche perché nel suo nome è insita già la libertà. Chagi in russo vuol dire passi; chagalle grandi passi. Camminare a grandi passi per il popolo russo vuol dire VOLARE CON LE ALI . E noi con lui!

 

 

Paul H.D. d’Holbach, Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei cortigiani, Il Melangolo, Genova, 2009

 

M. Chagall, La mia vita, ed. SE s.r.l. Milano, 1998


RENOIR E LA COSTITUZIONE ITALIANA

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Il 1 marzo 1988 Oscar Luigi Scalfaro, allora semplice deputato, tenne ad Osimo una mirabile lezione sulla Carta costituzionale italiana, non solo dal punto di vista giuridico e politico, ma anche umano. Una persona a me cara mi ha fatto leggere la registrazione di quella conferenza inedita, che mantiene ancora oggi tutto il suo valore e la sua stringente attualità.

Una fra tutte la narrazione di quando nel 1946 applaudirono l’articolo 2 che, scrive Scalfaro, “per me, per la mia vita, per il mio gusto è il cuore della Costituzione”:

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”

E’ il termine “riconosce” che lo emoziona e ci emoziona per la sua potenza incredibile. Lo Stato, infatti, non è un germinatore di diritti, un padre che dona, elargisce o toglie e riduce.

Ma l’uomo è prima dello Stato. L’uomo è colui che mette al mondo lo Stato. E lo Stato, la Repubblica, nel momento in cui nasce dall’Uomo, come primo gesto, si inchina ai diritti inviolabili dell’uomo stesso che ci sono prima che lo Stato sia.

Riconoscere diventa allora un verbo che fissa la realtà, una parola viva.  

L’articolo 2 mi ha fatto compagnia anche giorni fa quando a Genova a Palazzo Ducale ho visto la mostra Mediterraneo. Da Courbet a Monet a Matisse aperta fino al 1 maggio. Un’esposizione presentata come una passeggiata attraverso il sud della Francia, dalla Provenza alla Costa Azzurra fino a Bordighera con gli occhi dei più o meno grandi impressionisti e post-impressionisti. Subito devo dire che così non è. Non è proprio una passeggiata al sole.

Le tele di Renoir, Monet, Cézanne, Matisse, Braque sono le migliori, quelle dalla fine degli anni ottanta quando il sapore retinico non accontenta più la ricerca pittorica e umana di questi grandi artisti. Monet si culla tra i rosa e gli azzurri e realizza Veduta di Bordighera (1884) e il Forte di Antibes (1888). E toglie il fiato. Matisse fa di Nizza la sua finestra sul mondo. Van Gogh divora il giorno e la notte come i suoi tubetti di colore.

Ma è  nella  terza sala che ritrovo la Costituzione.  

Il tema del paesaggio nelle “Rocce a L’Estaque” mette insieme, vicini vicini Renoir e Cézanne. E’ il 1882. Una giornata di febbraio.  I due lavorano fianco a fianco. La pelle e la sua essenza direbbero i critici. Ma lì nel Midi della Francia, Renoir e Cézanne si riconoscono. Dopo un percorso a piedi, a parlare di pittura con la cassetta dei colori,  piantano il cavalletto, ognuno ha di fronte le rocce oltre le quali c’è il mare e il porto di Marsiglia. Cambia il gesto pittorico, ma il sentire è identico, la condivisione si respira. La libertà interiore delle coscienze è illimitata. Il luogo dell’anima è dichiarato e accettato come esistente da entrambi. Pulsano di vita. Di una comune visione della vita. Ricerca, rigore, forse ossessioni o impegno costante, ma grande capacità di sentire e di sentirsi. Lì tra le rocce la pittura diventa mezzo di conoscenza e  il colore, la forma e la linea garantiscono ai due grandi Maestri di riconoscersi e di dichiarare soprattutto il  proprio diritto inviolabile di espressione.

La mostra termina con una saletta detta del congedo dove Monet, Cézanne e Van Gogh danno il meglio di sé. Ma manca Renoir. Di corsa ritorno dalla forte presenza di Cézanne, che sempre mi conquista e mi appartiene, ma questa volta l’ultimo mio personale  congedo è per Renoir. Un artista o meglio, sull’onda della Costituzione,  un cittadino che secondo le proprie possibilità e la propria scelta  ha svolto una funzione importante ed essenziale, concorrendo al progresso spirituale della società.



Maamme (Terra nostra)

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Nella campagna sconfinata, Villa Manin, a Passariano, in terra friulana, espone capolavori di donne e uomini, artisti che hanno raccontato attraverso madre natura una parte importante di sè e difeso valori di giustizia e libertà.
Per invogliare chi legge ad andare, soprattutto adesso d’inverno, alla mostra “Munch e lo spirito del nord – la Scandinavia nel Secondo Ottocento, parto da un canto, da un inno, quello finlandese.

Maamme (Terra nostra) è l’inno della Finlandia. Ogni tanto a Helsinki si tenta di cambiarlo perché musicato da un tedesco e scritto da uno svedese. Si propone uno di loro, il maestro finlandese Sibelius, ma poi non succede nulla.

In Maamme, terra nostra, si canta: Amiamo i nostri fiumi spumeggianti e i nostri corsi d’acqua che precipitano – le cupe, ariose foreste, le nostre notti di stelle, la luce delle nostre estati.

La mostra, vi assicuro, è un tuffo nelle profondità delle acque del nord, gelide o rinfrescanti, rassicuranti perché racchiuse da un fiordo o profonde e pericolose perché legate alla sopravvivenza e alla durezza della vita.

La natura onesta e mai scontata è un pretesto per parlare di valori, di sentimenti, di libertà conquistate.

Dipingere per gli artisti scandinavi nel Secondo Ottocento vuol dire esplorare i propri pensieri come passeggiare nel bosco. Molti di essi, giovani esuberanti, affamati di vita, dopo un intenso periodo di formazione, perché lo stato elargiva borse di studio, a Dresda, Düsseldorf, Monaco, Parigi e infine in Italia, si costruivano il loro atelier sulle rive dell’acqua o nel cuore di un bosco. Avevano appreso la lezione degli impressionisti, il passato della scuola fiamminga e dei “tenebrosi” caravaggeschi. Ma dentro, nel loro angolo più segreto e convinto, ritraevano a modo loro la natura, quella delle cascate, dei fiumi ghiacciati, degli alberi battuti dal vento.

Seguivano il corso di un fiume, si infilavano sotto, proprio sotto le cascate, ricreando con le linee e i colori, il rumore assordante dell’acqua, il suono terribile o inquietante del ghiaccio spaccato e lo scorrere libero dei ruscelli in primavera.

La pittura della Scandinavia, allieva di Van Gogh e Gauguin, nelle linee e nei colori sconfina così e si appropria del pensiero simbolista, occasione unica di parlare attraverso la natura di noi stessi, di chi siamo e di dove andiamo.

L’anima simbolista si insinua in ogni figura, crepuscolo, in ogni paesaggio. Ti accompagna per tutta la mostra. E come la luce diffusa della Scandinavia non ti lascia e ti porta a Munch… dove le notti d’estate hanno un tempo lunghissimo e ti danno la possibilità di pensare.

E così ti viene voglia di prendere la cartina, di conoscere meglio la storia, le scelte politiche, sociali di questi paesi scandinavi. E scopri che non è un caso che le accademie, le scuole d’arte sono state istituite solo a Stoccolma e Copenhagen, regni egemoni e più forti, dominatori per secoli delle vicine Norvegia e Finlandia, mai comunque remissive, ma combattenti in nome della libertà.

Ed ecco perché l’inno finlandese canta della propria terra, rivendicando tuttora un mondo di giustizia e libertà, nato dalla musica e dalle parole, o da una luce, un bagliore nella notte o un raggio filtrato da una finestra sospesa nel tempo.

Le luci del nord sono chiamate Revontulet, letteralmente “volpi di fuoco”: secondo una leggenda lappone, sarebbero originate dalla coda di una volpe che, correndo sulle colline, solleva la neve e la lancia verso l’alto, facendo volare scintille infuocate nel cielo.

Esci dalla mostra con un senso di sazietà, di completezza. Come quando hai fatto un percorso in montagna e hai gli occhi pieni di immagini e il cuore gonfio e riconoscente verso la natura. I miei preferiti? … il danese Hammersђoi, lo svedese Jansson, il norvegese Balke e Gallen-Kallela, artista nazionale finlandese : Il suo giovane pino ricoperto di ghiaccio e di neve in primo piano ricorda la resa pittorica dell’arte giapponese e il ghiaccio, la neve gelata con i mulinelli tutto intorno, magnificamente frenati dal gelo quello del sud- est, di Imatra, nella Carelia meridionale, ti attraggono magneticamente in un turbinio di sensazioni e pensieri.

E’ proprio vero che in Scandinavia il pittore di paesaggio deve essere un poeta.

Munch e lo spirito del nord, Villa Manin, Passariano di Codroipo (Udine), fino al 6 marzo 2011

BRAVO CHARDIN!

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Si chiude l'evento di Slow Food, salutato dalla stampa italiana e straniera positivamente.

Oltre 200 mila visitatori, 30% di stranieri in più rispetto a due anni fa, 900 espositori, un budget di 13 milioni di euro e la certezza che il percorso di fusione tra il Salone del Gusto e Terra Madre è stato raggiunto. Cinque giorni intensi, ricchi di soddisfazioni e obiettivi raggiunti. Roberto Burdese, Presidente di Slow Food Italia manifesta la sua soddisfazione perchè si tratta di un risultato positivo in questo momento di crisi.

Crisi  ahimè anche di mostre in Italia.

Giorni fa  ho presentato la mostra su Chardin il pittore del silenzio, protagonista dell’arte del ‘700. Tante immagini, suggestioni, atmosfere da me preparate, pensate e proposte al pubblico per invogliare prima di tutto ad andare a Ferrara, Palazzo dei Diamanti,  per non perdere una della mostre più intense, corrette e serie oggi  in Italia e poi per riflettere sul valore delle cose semplici e l’affermazione del silenzio rispetto all’arroganza rumorosa del potere, in questo caso  la corte di Versailles.

Al termine della presentazione mi sono piacevolmente stupita e divertita quando un distinto signore fra i presenti mi ha detto che le opere di Chardin gli procuravano un languorino allo stomaco, in poche parole una piacevole voglia di mangiare e di assaggiare. L’intervento mi ha fatto molto piacere sentendo nello sguardo di quel signore una richiesta e una riflessione legata al gusto.

Il cibo scelto da Chardin, i tavoli da cucina essenziali pensati e dipinti da questo artista amato e copiato dai colleghi moderni, da Cézanne a Braque, da Morandi a Paolini,  definito da Van Gogh pari a Rembrandt, i suoi oggetti sempre quelli hanno risvegliato i sensi ma nel rigore costante dell’osservazione e nell’attesa che è potente nella sua pittura più del gesto stesso.

L’attenzione precisa, sempre uguale sia che si tratti di un paiolo di rame, di una lettera d’amore protetta dalla ceralacca o bolle di sapone o sgombri e prugne, fragole o cacciagione ripaga l’artista ma anche lo spettatore regalandogli la possibilità di entrare in altre dimensioni. Anche quella di desiderare di assaggiare, di gustare la genuinità del cibo.

Chardin sa risvegliare in noi due qualità umane portanti: l’austera anarchia, di chi sa opporsi e fare delle scelte coraggiose ma scomode e l’intelligenza affettiva chiamata empatia,  la forza  cioè di una fraternità che non dimentichiamo essere stato il terzo valore della rivoluzione francese. E con Chardin in pittura o in musica con Sainte Colombe o Marin Marais il Settecento orgogliosamente si fa spazio fra i belletti  maleodoranti dei cicisbei.  

Nel tempo, fra tutti i valori,  la fraternità è stata quella più dimenticata. Oggi siamo pieni d’intelligenza, ma  razionale e manca completamente l’intelligenza affettiva.

E allora da dove si riparte. Dal cibo naturalmente.

Questo significa soprattutto difendere, portare in evidenza la sovranità alimentare e quella della conoscenza: ogni popolo, ogni comunità ha il diritto di scegliere cosa mangiare, cosa seminare e come comunicare; ha diritto alla propria identità.

Chardin insegna che il senso della vita è davanti ai nostri occhi, le risposte da ricercare nella nostra quotidianità, nella genuinità dei gesti,  nelle cose e nella natura. Non si esce dalla crisi entropica se non volando molto alto e cambiando profondamente i paradigmi a partire dalle nostre singole, piccole vite.

Scambiare il prezzo del cibo con il suo valore ci ha distrutto l’anima.

E’ ora di non farsi più del male.

Bravo Chardin!

 

 

 

Se volete il 25 novembre 2010 ore 20.30 ripresenterò la mostra presso la Biblioteca di S. Ambrogio di Valpolicella come Libera Università Popolare. Ingresso doverosamente libero.


Goya e il mondo moderno

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BELLISSIMA !?

Per chi come me ama condividere e rendere partecipi gli altri di ciò che ha visto, diventa, a volte, anzi sempre più spesso, imbarazzante presentare una mostra e invogliare le persone a vincere la propria pigrizia e a decidere di prendere un treno, scegliere un giorno, fare una scelta, organizzarsi del tempo….

Imbarazzante perchè sempre di più le mostre non convincono. Titoloni, grande attesa non solo di fila, grande pubblicità e voglia di non perdere l’evento dell’anno. Milano, duomo, la Madonnina… certezze. Accanto Palazzo Reale. Goya da una parte e Schiele dall’altra. Scelgo Goya con la promessa all’uscita di non tradire Schiele.

Grandi numeri : Goya dialoga con 45 artisti della modernità, Goya veicolo culturale tra l’Italia e la Spagna alla presidenza semestrale della Comunità europea ; Goya con più di 20 musei e collezioni prestatori ; i curatori due fra i massimi studiosi di Goya. Tutto parte bene. Infatti l’inizio è mozzafiato. L’autoritratto di Goya si accomoda e si specchia tra gli altri due emeriti David e Delacroix, ma subito si comprende come Goya non abbia paura del tempo, del tempo che passa. Gli occhi non ingannano e dietro un corpo che invecchia la personalità di questo artista aragonese ti prende per mano. Ti fa vedere la quotidianità, fatta di gesti come l’Arrotino o i mostri del mondo della notte, il sogno della ragione genera mostri, l’ignoranza, la superstizione e dove il mostruoso coincide anche con la pazzia. Ma nel clima crudo e senza veli che imprime Goya con autentica umanità affiorano i grandi della modernità. All’inizio ti appassioni soprattutto con i riferimenti al grottesco di Daumier e alla visionarietà di Klinger, Kubin e Michaux, ma sempre di più nomi, tele, quantità di opere non sempre puntuali affollano le sale e la tua mente. Si crea un corto circuito per cui a un certo punto ti chiedi ma Goya dov’è ? Il tema degli orrori della guerra sono efficacemente descritti già in quel NO QUIEREN di Los desastres de la guerra di Goya. Strazio, dolore che diventa urlo e che ben esprime Zoran Music nella sua opera Non siamo gli ultimi. Senti l’esigenza di maggiore intimità, di vedere più qualità di Goya e meno quantità di artisti moderni. I lunghi corridoi disperdono tutto questo patrimomio, lasciandoti alla fine un senso di smarrimento. Sempre più il pubblico nel librone dei commenti si arrabbia ed è deluso. I fantasmi di Goya gridano vendetta !

Una mostra comunque meritevole e intensa anche se a tratti discontinui. Sarebbe stato per me più facile dire una mostra « Bellissima », commento diffusissimo, superlativo e qualunquista, dietro il quale la gente sembra appagata nell’esprimere ciò che ha visto e sentito ; soddisfatta, compiaciuta solo della scelta, della meta, di Roma piuttosto che Milano, di Caravaggio (al momento la più gettonata) piuttosto che Goya, della Freccia bianca che in tre ore raggiunge la capitale. Una massa, orgogliosa, come per i viaggi, di arricchire il proprio carnet, sottoponendosi a code sfiancanti fatte di individualità, di cellulari comunitari, di tendenze ; file diverse da quelle degli anni novanta, meno organizzate, quando la coda era partecipazione, condivisione, attesa e non conferme narcisistiche o vocianti presenze e quando ancora si riuscivano a vedere le tele senza biglietti ad orari e senza sgomitare. Era un tempo dedicato veramente a Klee, Kandinskij, Magritte. Tutti artisti che come è stato Goya non si sono piegati all’arroganza del potere ma hanno scelto di essere come dipingerebbe e definirebbe Goya hombre vertical, uomini veri.

La pittura va in scena

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Non è facile avventurarsi tra le sale del Mart che espongono circa 200 opere della scenografica e corposa mostra “Dalla scena al dipinto”. Si percorre la storia dell’arte del XIX e XX secolo attraverso il teatro, provando quanto i due mondi si siano contaminati, cercati, voluti ma anche allontanati, disamorati e rifiutati per l’esigenza di rivendicare i propri spazi e la propria libertà di espressione. Vi racconto ciò che ho visto.

La potenza neoclassica di David nel Giuramento degli Orazi mi accoglie con la sua idea di sublime rassicurante, ricordandomi la teatralità di Corneille e di Racine. Ma tra miti, storia romana e greca il mio passo corre a rifugiarsi nel buio accecante di Füssli che tra neoclassicismo e romanticismo mi racconta delle streghe del Macbeth e della morte di Cordelia, figlia prediletta di Re Lear. Opere sensazionali, dove il sublime è tempesta della psiche.

Sono tempi in cui la natura non è più panacea di ogni contrasto, rassicurante rifugio dell’animo, non rispecchia la creazione divina e l’arte deve chiedere aiuto alla filosofia. Kant parla di bello assoluto, Il bello è bello sempre. Poco importa cosa un’opera rappresenti; ciò che invece conta è l’armonia. Ma non tanto l’armonia delle forme in se stesse, quanto l’armonia che esse producono in noi, nella nostra mente. E’ bello un dipinto, ma anche un fiore, un tramonto, un sentimento.

Ed ecco che languidi e sognanti Paolo e Francesca di Ingres incantano nei colori vivaci e squillanti per tenerezza e relazione; le cui forme sgraziate hanno orientato e insegnato a Cézanne e a Picasso un’arte mentale, pensata più che guardata.

Delaroche e Delacroix fanno a gara per bravura e suggestione. Quanto chiude con il suo pennello perfetto e noir Delaroche (inquietante l’attesa dei due figli di Edoardo), quanto allarga con toni vibranti Delacroix regalandomi momenti di lucida follia(sublime lady Macbeth).

Previati nella sua scapigliata pittura italiana regge e supera il confronto con artisti francesi quali Cabanel e Gérome più distaccati e mentali. Figli di un estenuante romanticismo.

Ma ormai sono salva. Degas, Daumier Lautrec, maestri della modernità, sono pronti ad alleggerirmi e raccontarmi la storia dell’arte da un altro punto di vista, non più centrale, non più legato al dramma, all’attore, a Shakespeare, ma al corpo, alla figura umana. Intense le tele di Degas. Prima o dopo il passo di danza. Le cattive maniere esibite e comprese da Lautrec. Il grottesco e il denunciato mondo del serio Daumier. Si guarda finalmente con libertà, dall’orchestra, dal pubblico, da te stesso seduto in prima fila o sbraitante dal loggione.

Nelle ultime sale ormai il simbolismo sfalda e sfrangia non solo il colore e lo spazio, ma rende l’invisibile con gli occhi chiusi del veggente di Redon o della Salomè tatuata a metà di Moreau: l’essere rispetto all’apparire.

Purtroppo la parte più bella per me quella dedicata ad Adolphe Appia e Gordon Craig, maestri del teatro d’avanguardia, è relegata in fondo nelle ultimissime sale. Quel dommage! Il teatro, quando finalmente si riappropria del movimento, è poco rappresentato in mostra. L’astrazione, la scrittura scenica dove luci, musica, pannelli mobili (screens) e l’attore stesso come maschera trasformano lo spazio, lo modellano, lo rendono espressivo, non conquistano le luci della ribalta. Forse si poteva rinunciare a un po’ di neoclassicismo e qualcosa di romanticismo per consentire a Isadora Duncan di danzare a piedi nudi … in uno spazio quello del Mart non del tutto rispettato nella sua vera natura museale.

Dalla scena al dipinto. Da David a Delacroix, da Füssli a Degas.


Parma città d' arte

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Ci sono giorni magici, giorni dove tutto risulta chiaro, cristallino e dove situazioni, atmosfere e sentimenti sembrano avere una direzione o più direzioni o comunque un senso.
Tutto questo l’ ho vissuto e per questo lo vorrei condividere ritornando in una città a me cara come Parma. Non vi consiglio la mostra del Correggio, anche perché è terminata, ma alcune riflessioni visive legate a ciò che ho visto non solo da studiosa ma soprattutto da viandante. Palazzo della Pilotta, sede della Galleria Nazionale : andarci è un piacere. Parma apre le sue porte. La piazza con i suoi giardini guida alla scalinata d’entrata; al suo interno, l’imponente Teatro Farnese, vestito di abete rosso del Friuli, introduce nelle sale dove l’arte parmense e non solo, nota e meno nota sorprende per i colori, per la dolcezza dei suoi visi, per l’espressività dei suoi racconti del quotidiano. Mi sono rimasti in mente le sacre conversazioni trecentesche, la fanciulla “scapigliata” di Leonardo, le grandi tele di Sebastiano Ricci.
Antonio Allegri detto Correggio c’è, ma è soprattutto nel Monastero di S. Paolo che Correggio vi farà sentire ciò che il Longhi definiva il tepore del colore. Seduta nella mia seggiolina, a testa in su, nella piccola stanza dove la badessa trascorreva parte del suo tempo, trascorro anch’io un tempo dove è palpabile il colore blu cobalto, dove percepisco gli amorini scherzare fra di loro e dove teste di arieti si osservano in un muto dialogo. Uscendo dal convento, dopo avere dato una sbirciata al teatro dei burattini, ho come la sensazione di volere di più. Tra le vie eleganti e scenografiche di Parma la cattedrale offre la cupola del Correggio, la deposizione scultorea dell’Antelami (straordinario è il particolare della tunica ) e gli impressionanti affreschi del Gambara nelle pareti laterali.
Sazia di antico, chiedo il contemporaneo. Parma generosa me lo offre. Ma per trovarlo devo andare in periferia, quartiere Montanara, dove ha sede la Fondazione Solares. “Ex. Quartiere degradato, bronx, dice il direttore della Fondazione Andrea Gambetta – ma tirato su e con mille attività. Guardandolo bene, i palazzoni, certe strutture non mentono, ma il verde infinito, i centri culturali - la Fondazione stessa sorge attaccata a un centro di raduno per anziani – ti fanno comprendere come con intelligenza e buon senso le cose siano state fatte. La Fondazione mescola fotografia, musica, cinema e mostre contemporanee prodotte e frutto di collaborazioni all’estero. Che dire ? Si respira un po’ di più di cultura. I problemi economici, organizzativi, di risorse ci sono, ma lo spirito è diverso rispetto a una città d’arte come Verona. L’idea che è alla base è quella che bisogna cooperare, riunire le forze, non chiudersi in arroccamenti mentali e culturali. Solo in questo modo ce la si può fare, ma occorre lungimiranza, ascolto e tanta umiltà. All’interno del cinema Edison della Fondazione c’è un piccolo spazio espositivo dove campeggia un’ interessante installazione di un artista, Marco Bolognesi, stra-conosciuto all’estero, naturalizzato inglese, da scoprire, in ritardo qui in Italia. Quasi a protezione, grandi lighboxes, dove inquietanti, ma ieratici volti, cibernetici e ambigui corpi preludono alla proiezione di Black Hole, accurato e esistenziale cortometraggio sempre dell’artista. Si va per appuntamento, ma senza timidezze non è per addetti ai lavori!!!
Colori e ancora colori: I verdi e rosati del Correggio e i blu e i bianchi elettrici di Bolognesi sembrano accompagnare il tramonto e me che lascio Parma.
Antico e moderno, passato e futuro che differenza fa? Purtroppo a Verona la differenza esiste… nella nostra città non autenticamente d’arte.

Souvenirs di Verona

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Una riflessione critica sulla mostra di Corot, approdata alla Gran Guardia dopo il fallimento del tentativo di allestire alla Gran Guardia la mostra del secolo con Goldin.

Bambini guardate i tre dipinti con attenzione cosa c’è in comune tra Corot, Braque e Matisse ? Cosa lega il giovane italiano sdraiato di Corot con il ragazzo disteso sull’erba di Cézanne ? Perchè stanno lì tutti insieme, stretti stretti.

Domande, tante domande. Interrogativi che anch’io umilmente mi sono fatta, cercando di capire e di comprendere alcune distorsioni che la mostra alla Gran Guardia su Corot e l’arte moderna mi hanno provocato. Le opere, molte, sono limpide, forti, solide, ma si ha come la sensazione che non sia stata data fiducia alle tele, che da sole non avrebbero potuto reggere una parete. Ma questo non è vero. Non si rende giustizia a Corot e nemmeno ai suoi vicini. Sembrano trovarsi insieme per un’identità di soggetto, non per una consapevolezza del linguaggio pittorico. Stanno lì attaccati, ma vorrebbero respirare o stare insieme con chi vogliono loro. La Bella signora di Derain con il suo libro pensante non ha nulla da dire alla lettrice inghirlandata di Corot e la Ragazza alla toilette indolente che pettina i suoi capelli è incastrata tra i due Picasso e guarda con invidia la Ragazza con una perla, lì orgogliosamente tutta sola. Quel piccolo gioiello di Venezia realizzato da Corot baciato dalla luce italiana, è annullato dalla maestria del Guardi. Ce la fa soltanto il giovane seduto sul bordo della balaustra di Villa d’Este a reggere da solo lo stupendo rideau, ma sembra richiedere la compagnia degli artisti del Caffè Michelangelo o della scuola di Posillipo che non sono stati invitati.

Mi sono trovata in sintonia con lo scritto sulla Stampa di Marco Vallora. Mi sono confortata… e rincuorata. Anche lui parla di altri mondi e di sostanza….

Povero Corot, povero père Corot… bontà e umiltà per tutti, ma l’ingiustizia è pesante, anche quando un lilla delle pareti espositive non ti permette di perderti nei suoi grigi, verdi. E’ come se mancasse alla mostra un pensiero, una sostanza, una solidità. Esci con dentro delle emozioni legate però alle singole opere, ai bei pezzi come il pubblico ama definire, ma il nulla per quanto riguarda il significato di tutto questo assume i contorni di un silenzio assordante.

Rimane dentro quella sensazione che non basta accostare i dipinti, a volte anche in maniera brusca. Dovresti portarti dentro di Corot la libertà dell’inquadratura, di una messa a fuoco anticipatrice della fotografia e il suo rinnovato sentimento della natura e del mondo. Atteggiamenti presenti nelle sue misurate opere e che interessano Cézanne, Van Gogh e i simbolisti. Sostanze, pensieri che non sono comunicati, suggeriti in modo ampio e semplice. Uscendo dall’ultima sala, scendendo lo scalone della Gran Guardia non passa e non resta quel voler sentire più profondo di Corot, non affiora in mostra perchè non si permette alle opere di esistere e di dialogare anche a distanza. Si è più attenti a riempire le sale, accomunando gli artisti per soggetto, non facendo affiorare la solidità di pensiero, il sentire la voce della natura che permettono a Cézanne di toccare Corot più di quanto potrebbero fare gli impressionisti troppo presi a frantumare le ombre.

Bambini guardate i tre dipinti con attenzione cosa c’è in comune tra Corot, Braque e Matisse ?

Ormai e per fortuna i bambini per intelligenza, emotività e consapevolezza non rispondono più : il mandolino.

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